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I sapori del viaggio

Non c'è bisogno di scomodare le "Lettere persiane" di Montesquieu per rendersi conto che un semplice cambio di prospettiva, talvolta, può modificare radicalmente l'interpretazione della realtà. Lo stesso meccanismo è alla base di "I sapori del viaggio", delizioso libretto di poche pagine (per l'esattezza 142 al prezzo di 12 euro, pubblicata dalle edizioni Archinto nel 2008): apparentemente solo una raccolta di bizzarri aneddoti a sfondo culinario, che però può stimolare riflessioni interessanti sul nostro rapporto con il cibo ma, soprattutto, con il viaggio e con tutto ciò che esula dalla "normalità".

L'antologia, curata da Renata Discacciati e arricchita dalle illustrazioni di Adriana Morabia Silvestri, raccoglie una serie di brevissimi passi tratti dalle opere di autori più o meno conosciuti, quasi tutti dell'Ottocento con qualche incursione nel secolo precedente e successivo: tra i nomi celebri troviamo Jerome K. Jerome, Mark Twain, Robert Louis Stevenson ed Henry James. Tutti i brani citati sono racconti di viaggi in location più o meno esotiche, che hanno in comune la tematica gastronomica: invitati a pranzo o a cena da ospiti stranieri, o costretti dalle circostanze a mangiare in luoghi inconsueti, i 37 viaggiatori - tutti britannici o comunque anglosassoni - descrivono con un misto di curiosità, fascinazione e spirito critico le proprie esperienze a tavola. Le sensazioni prevalenti, bisogna dirlo, sono lo sbigottimento di fronte a culture e abitudini che oggi considereremmo assolutamente normali quando non addirittura di moda (vedi ad esempio la cucina indiana o quella giapponese), o addirittura la repulsione nei confronti dei cibi più inconsueti: irresistibile la descrizione del pestato d'aglio che un malcapitato esploratore è costretto a ingurgitare sul Monte Athos. Non mancano però, al di là del gusto per l'eccentrico o il pittoresco, espressioni di genuino apprezzamento per piatti e culture sconosciuti.

Il libro, come detto, può essere considerato un semplice divertissement poco impegnativo, e del resto è impossibile non farsi strappare un sorriso dalla cronaca della preparazione di un piatto di uova strapazzate, se viene dalla penna di uno scrittore come Jerome. Per un lettore di oggi, tuttavia, l'aspetto più interessante è notare come vengono descritte le realtà che ai nostri giorni sono considerate il top dell'alta cucina mondiale: a uscirne a pezzi non sono soltanto le tavole tedesche e quelle spagnole, ma anche l'Italia e addirittura la Francia... al di là dello sciovinismo e del capovolgimento dei rapporti di "forza" gastronomica tra la Gran Bretagna e le altre potenze del mondo, colpisce il fatto che qualsiasi abitudine alimentare, se guardata con occhi inesperti e disabituati, possa risultare "strana" o addirittura ripugnante. Il medesimo insegnamento arriva dalle ingenue critiche rivolte ai piatti tipici dei Bantù o al pesce cambogiano: in viaggio (e non solo), i pregiudizi e le chiusure verso ciò che è diverso dalla nostra forma mentis ci mettono sulla strada del ridicolo. Una figura decisamente migliore la fa chi, per quanto possibile, tenta di adattarsi o giudicare obiettivamente ciò che vede e assaggia: magari senza arrivare agli eccessi di Francis Galton, che ci propina le prelibate "ricette" di sandali di pelle e carogne di volatili...

Ultimo aspetto da sottolineare: tra gli autori selezionati per il volume sono moltissime le viaggiatrici donne, che spesso dimostrano grande sensibilità e libertà di giudizio, forse anche perché all'epoca il tema della "tavola" era considerato prevalentemente femminile. I loro testi ci offrono uno spaccato prezioso e inconsueto della realtà ottocentesca da un punto di vista poco frequentato: merito, indubbiamente, della curatrice del testo, che non si è limitata a un'opera di semplice compilazione.

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