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Osterie d'Italia 2010

L'introduzione, diceva qualcuno, è quella parte del libro che si scrive alla fine, si pubblica all'inizio e non si legge né all'inizio né alla fine. Battuta veritiera, ma con qualche eccezione: nel caso dell'ormai mitica guida Osterie d'Italia, per esempio, si tratta sempre di una lettura interessante per capire da che parte gira il vento in casa Slow Food, a maggior ragione in occasione del ventennale dell'opera che ha a suo modo segnato la storia della critica gastronomica (la prima edizione uscì infatti nel 1990). In questo caso la nostra prima reazione alla lettura del testo introduttivo, redatto in forma di dialogo tra la curatrice Paola Gho e il "grande capo" Carlo Petrini, è stata di sincera commozione, in particolare nel passaggio in cui il fondatore di Slow Food, per esemplificare il modello di vita e di sviluppo dell'associazione, cita "il piacere di una polenta concia con gli amici": a vedere enfatizzato e osannato in questo modo il nostro piatto-totem lo scorrere di qualche lacrimuccia è stato inevitabile per noi che pure, a comprendere l'importanza di queste piccole ma grandi cose, ci siamo arrivati un po' più tardi (soprattutto per ragioni anagrafiche).

Al di là della difesa, sempre attuale, di abitudini conviviali e sapori di una volta, Petrini fa però un'altra importante osservazione, nel momento in cui rileva e rivela che l'osteria, molto più di un ideale gastronomico, è un topos culturale. Quello che Slow Food vuole recuperare dei locali di un tempo, viene detto a chiare lettere, è l'atmosfera, l'identità locale, la possibilità di condivisione sociale, ma non la cucina: quella è un'altra cosa, e può derivare dalla tradizione popolare (praticata in un contesto casalingo più che pubblico) come dalle scuole di ristorazione. Un concetto importante, che finalmente chiarisce un aspetto spesso travisato della filosofia dell'associazione piemontese. Ciò non significa peraltro che Slow Food sia disposta a transigere sul legame con il territorio e, soprattutto, con il passato: anzi, dice esplicitamente Petrini: "il successo della guida ha pure contribuito a esasperare certe tendenze che non condivido, come quella di diventare esclusivamente luoghi di ristorazione, con relativa enfasi sulla preparazione e soprattutto sulla presentazione dei piatti. (...) Un altro rischio è di trovarsi in ambienti eccessivamente ingessati, e magari alle prese con apparecchiature e servizi che ricordano più l'alta ristorazione che i ritrovi popolari".

Fin qui l'introduzione: poi, per fortuna, c'è anche il resto del volume. I pregi della guida (910 pagine, 20 €) sono rimasti meritevolmente immutati: ricca ma snella e maneggevole, a basso prezzo (addirittura diminuito di qualche centesimo rispetto all'ultima edizione), facilmente leggibile anche per il "profano", onesta e sostanzialmente precisa nelle recensioni, malgrado qualche prezzo un po' ritoccato al ribasso. La consultazione resta comoda e pratica grazie alla classica suddivisione dei locali per regioni, ciascuna delle quali introdotta dall'intervento di un personaggio celebre; anche gli ospiti sono più o meno equamente divisi tra nostalgici e "futuristi". L'attenzione all'evoluzione della cucina italiana è testimoniata dalle tante new entry: solo nel milanese, come abbiamo già avuto occasione di notare, se ne possono contare ben 4, sintomo dell'intraprendenza di chef e imprenditori ma anche della prontezza negli aggiornamenti da parte dei curatori.

Anche i lati negativi, sia pure di rilevanza ben più modesta, sono quelli già evidenziati per le precedenti uscite: in primis, l'assenza di un criterio più rigido e almeno in parte verificabile per l'inserimento dei locali e l'attribuzione delle ambite chioccioline (che identificano i ristoranti "da Slow Food"). L'impressione generale è che, tagliato il prestigioso traguardo del ventennale, la guida sia chiamata a esprimere giudizi netti e prendere una posizione ben definita. Oggi che i valori propugnati dall'associazione, dal chilometro zero alla riscoperta delle tradizioni agricole, si sono trasformati in una moda e i tentativi di imitazione sono superiori a quelli della Settimana Enigmistica, oggi che persino Mc Donald's si concede il lusso di sfornare panini con "ingredienti locali", senza peraltro migliorarne di un briciolo la qualità, non è più sufficiente definire l'osteria in base a quello che non è: bisogna chiarire con precisione e serietà quello che è, o perlomeno dovrebbe essere. In parole ancora più povere: vent'anni fa Slow Food era all'opposizione, oggi deve dimostrare di saper governare il nuovo corso della nostra gastronomia.

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