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La botte piena e il turista ubriaco

Partiamo dalla fine, in senso letterale. Per la prima volta nella nostra poco luminosa “carriera”, infatti, siamo stati ospiti del Vinitaly nel giorno della chiusura, che da un paio d’anni cade il mercoledì. Dal punto di vista del visitatore, la scelta presenta pro e contro equamente divisi: i vantaggi sono la minore affluenza di pubblico e la maggior tranquillità in fiera, l’inconveniente principale è che alcuni espositori, soprattutto quelli geograficamente più lontani, iniziano a tirare su baracca e burattini molto prima dell’orario di chiusura. Ci soffermiamo su questi dettagli tecnici solo perché sono tra le poche variazioni notevoli da segnalare: per il resto il Vinitaly 2015 è stato, nel bene e nel male, il “solito” Vinitaly, malgrado l’anticipo sui tempi. La manifestazione si è svolta infatti dal 22 al 25 marzo, perché dal 1° maggio ci sarà da occuparsi dell’EXPO milanese, in cui Vinitaly e Veronafiere gestiranno il padiglione dedicato ai vini.

È stata però un’edizione molto discussa, sulla rete e non solo: tante, forse più del consueto, sono state le critiche rivolte all’organizzazione. Fra queste fa particolarmente scalpore un post di Alfonso Cevola, meglio noto come Italianwineguy, che sostanzialmente massacra la fiera di Verona dopo quasi 40 anni di frequentazione: il titolo, “Why this might be our last Vinitaly”, dice già tutto. Alcune delle osservazioni di Cevola appaiono pretestuose, come quelle sui fumatori davanti alle porte; altre ci risultano poco fondate, ad esempio per quanto riguarda i problemi di connessione (quest’anno la rete cellulare ha funzionato perfettamente, a differenza di altre occasioni). Difficile però negare che l’autore abbia ragione sui problemi più consistenti, quelli che riguardano la logistica e la massiccia presenza di visitatori occasionali, interessati soltanto a tracannare quanto più vino possibile. Si tratta di una questione annosa e priva di soluzione: da sempre l’evento cammina sul filo di un labilissimo equilibrio tra la vocazione fieristica, da un lato, e quella commerciale, dall’altro. Se Vinitaly non si fosse aperto alle masse non sarebbe diventato quello che è, e il mercato del vino ne avrebbe senz’altro sofferto; d’altro canto, capiamo benissimo che a qualcuno possa dare fastidio ritrovarsi a tentare di degustare un pregiato Amarone in mezzo a torme di scatenati ubriachi che cantano “Mi ubriaco e son felice, anche se poi vomito”…

Eliminando inviti gratuiti e bagarini, è chiaro, i disguidi si limiterebbero di molto, ma certamente l’organizzazione non potrebbe più sfoggiare numeri roboanti e in perpetua crescita: 150mila visitatori totali di cui ben 55mila dall’estero, 2600 giornalisti accreditati da 46 nazioni, buyer stranieri in arrivo da 140 paesi. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, anche gli espositori da noi visitati personalmente sembrano in media soddsifatti dal numero di presenze e di contatti. Rispetto agli anni scorsi, che avevano visto emergere alcune precise tendenze settoriali, il panorama vinicolo sembra essersi più o meno stabilizzato. C’è però un trend che, a nostro modo di vedere, si impone chiaramente: è il successo crescente dei consorzi, siano essi gestiti da Regioni e Province, da associazioni di settore o da entità indipendenti. In pratica, sono sempre di meno – anche se ancora in maggioranza, beninteso – i produttori che si presentano al Vinitaly autonomamente, mentre in quasi tutti i padiglioni abbiamo notato il fiorire di stand collettivi, da quello scenografico della Regione Sardegna (vedi foto) alla scelta più sobria (pun intended) del Friuli, che ha suddiviso l’area a sua disposizione in varie “torri” in legno, ciascuna identificata da un nome di donna. Sarà banale ma l’unione fa la forza, non soltanto in termini economici ma anche per le maggiori chance di successo: meglio consigliarsi a vicenda che fare la guerra allo stand vicino, sembra lapalissiano ma non lo è. Il discorso vale a maggior ragione per le associazioni come la FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti), che al Vinitaly aveva in gestione una zona di 300 metri quadri con 53 stand, ma che per il 2015 promette di mobilitare quasi la metà dei suoi 900 soci!

L’altro tema caldo è appunto quello della promozione e della comunicazione del vino, argomento di cui si parla sempre più spesso (talvolta a sproposito). Come emerge da una tavola rotonda tenutasi proprio in Fiera, persino la grande distribuzione ha ormai capito il concetto: puntare su sconti e offerte speciali svilisce un prodotto di estrema qualità, da raccontare e introdurre al pubblico nel miglior modo possibile. Il problema è che, come abbiamo accennato anche sul nostro blog, nonostante gli anni di esperienza non tutte le aziende sembrano aver colto la differenza: molti espositori si limitano al “compitino”, altri appaiono addirittura quasi infastiditi dai contatti con il pubblico, illudendosi che basti la presenza a Verona per aumentare magicamente la propria visibilità. Non è così, ovviamente: per imporsi in un mercato sempre più saturo, e che via via si sta aprendo anche alla concorrenza internazionale, serve capacità di narrare la propria storia e quella dei propri vini, di catturare l’attenzione del visitatore, persino di intrattenere. Sono cose che non si dovrebbero improvvisare, ma improvvisarle è comunque meglio di niente. Non è un caso, secondo noi, che le aree espositive più affollate del Vinitaly siano state anche quest’anno quelle dedicate al VIVIT (Vigne, vignaioli e terroir) e al Vinitaly Bio (vini biologici e biodinamici): un po’ per la moda del “green”, del sostenibile e dell’artigianale che spopola anche a Verona, ma molto anche per un approccio più “giovane” e informale al mondo del vino, capace di conquistare anche e soprattutto i visitatori più naif e meno informati. Che sono, o dovrebbero essere, il target più ambito per chi è in cerca di acquirenti.

Ci fermiamo qui per non annoiarvi oltre, ma vi lasciamo come al solito con una breve e personalissima selezione delle cantine che abbiamo avuto il privilegio di visitare.

Giuseppe Sedilesu – Mamoiada (NU): Questa piccola e relativamente giovane cantina di Mamoiada, nel cuore della Barbagia, è stata per noi la vera rivelazione del Vinitaly. Ma non siamo stati gli unici a notarla, dato che la rassegna si è aperta con l’assegnazione del riconoscimento di “Benemerito della viticoltura italiana 2015” e della Medaglia di Cangrande. Ben sei tipologie di Cannonau, dalle vigne più giovani alle più vecchie, compresi l’eccezionale ed eponimo Giuseppe Sedilesu e il barricato Carnevale; due bianchi dal vitigno autoctono Granazza, tra cui lo straordinario Perda Pintà, lasciato fermentare sulle bucce, che può raggiungere i 17 gradi. In generale, la volontà di affermarsi con una produzione di qualità e senza concessioni al “mercato”.

Skok – S.Floriano del Collio (GO): A due passi dal confine con la Slovenia i fratelli Skok producono bianchi di altissima qualità come Pinot Grigio, Chardonnay, Sauvignon e il premiatissimo Zabura, che sarebbe poi l’ex Tocai, da abbinare al prosciutto di Cormons. Ma il vero asso pigliatutto dell’azienda è indubbiamente il Bianco Pe/Ar, un blend di Pinot Grigio, Sauvignon e Chardonnay, quest’ultimo raccolto in vendemmia tardiva e affinato in parte in barrique: il risultato è un vino complesso e armonioso, quasi da meditazione.

Massolino – Serralunga d’Alba (CN): Recentemente ci siamo occupati della rivoluzione delle Langhe, operata negli anni Novanta dai “Barolo Boys”. Bene, Massolino sta esattamente dalla parte opposta: è un capostipite dei tradizionalisti, che produce vino dal 1896. Il suo Barolo, anzi, i suoi Barolo hanno un carattere austero e severo, con variazioni legate al vigneto di provenienza: ci sono il complesso Margheria, il potente Parafada, l’elegante Parussi e il Vigna Rionda, destinato al lungo invecchiamento. La produzione si completa poi con Barbera, Dolcetto, Nebbiolo, Moscato e Chardonnay.

Rottensteiner – Bolzano: Uno straordinario Gewürztraminer, dal profumo intensissimo ma dal sapore delicato e non troppo invasivo, è il fiore all’occhiello di questa cantina altoatesina, soprattutto nella cru Cancenai. Eccellente anche il Müller Thurgau, fresco e piacevole. Produzione molto vasta che comprende anche Chardonnay, Sylvaner, Pinot Bianco e Grigio, e rossi come Lagrein, Pinot Nero e Cabernet.

Colli Ripani – Ripatransone (AP): Nella sterminata produzione di questa cantina, che riunisce oggi oltre 400 soci per un totale di 800 ettari coltivati, si evidenziano soprattutto i bianchi: la Passerina Ninfa Ripana e il Pecorino Rugaro. Ad attirare sono però anche le etichette, realizzate dal designer Andrea Castelletti e premiate al concorso di packaging del Vinitaly: perfette quella del Marche IGT Sangiovese, vincitrice del primo premio, e quella “parlante” del Rosso Piceno (di cui, peraltro, è molto apprezzabile anche il contenuto!)

Polvanera – Gioia del Colle (BA): Nel carnet ci sono Aglianico, Minutolo, Falanghina, Moscato e persino un Brut Rosé, ma da queste parti si viene essenzialmente per il Primitivo. E non si rimane delusi perché la resa è straordinaria, sia nella versione base Primitivo 14 sia in quelle dalle vigne più antiche, che raggiungono i 16 e i 17 gradi alcolici (da cui i rispettivi nomi), tutte affinate in solo acciaio. Ne esistono anche varianti Bio e senza solfiti.

Guidi – Poggibonsi (SI): Attiva fin dagli anni Trenta, l’azienda senese è specializzata nella produzione di Vernaccia di San Gimignano, sia nella versione base che in quella affinata in legno per un anno, entrambe profumatissime e di raro equilibrio. Ottimo però anche il Chianti, dai tannini particolarmente aggressivi e persistenti.

Firmino Miotti – Breganze (VI): Uno dei produttori che negli ultimi anni ha rilanciato la moda dei vini “col fondo” o “sur lie”, rifermentati in bottiglia sui lieviti. Tra questi il Pedevendo, tratto da una rarissima uva autoctona del vicentino, e la leggera ed effervescente Sampagna da uva Marzemina Bianca. Eccellente anche il passito Torcolato.

Máté – Montalcino (SI): Non ci vuole un genio per accorgersi che le origini non sono propriamente autoctone: il fondatore Ferenc è un ungherese che arrivò negli anni Novanta da New York. Eppure i prodotti di questa piccola azienda dalle nobili origini hanno un sapore toscanissimo, soprattutto per quanto riguarda lo spettacolare Brunello di Montalcino. Ottimo anche il Merlot, considerato tra i migliori d’Italia.

Al di là del fiume – Marzabotto (BO): Giovane e poco convenzionale azienda bolognese che non ha certamente paura di rischiare, con prodotti poco noti come l’Albana Fricandò, un bianco macerato con le bucce per 10 giorni, e la Barbera Saramat. Ma soprattutto con la Barbera Dagamò, invecchiata per 3-4 mesi in anfore di terracotta che le conferiscono un gusto del tutto particolare: non adatto a tutti i palati, ma da provare.

Cioti – Campli (TE): La tradizione fatta vino. Uno dei viticoltori storici del borgo di Paterno di Campli, ancora oggi attivo per tenere viva la memoria dei grandi vini locali: Passerina, Cerasuolo e soprattutto l’eccellente Montepulciano d’Abruzzo, affinato in barrique. Altra specialità della casa è il vin cotto “Lu Bambinell”, sempre da uve Montepulciano, preparato in paiolo di rame e affinato in botte per almeno un anno.
Maria Donata Bianchi – Diano Arentino (IM): In attività dagli anni Settanta, oggi questa azienda vinicola gestisce anche lo scenografico agriturismo Valcrosa, a due passi dal mare. Tra i vini brillano naturalmente il Vermentino e il Pigato, entrambi di ottima qualità.

Canalicchio – Montalcino (SI): Azienda relativamente giovane che sorge in un territorio ricco di storia. Il suo Brunello di Montalcino, molto popolare (e costoso), ha un gusto elegante e raffinato. Produce inoltre il Rosso di Montalcino e l’IGT “Il Bersaglio”.

Audacia Wines – Stellenbosch (Sudafrica): Da questa nota cantina sudafricana potrebbe arrivare una tecnica di produzione rivoluzionaria: stanno per essere lanciati sul mercato europeo i Rooibos Wooded Wines, invecchiati nel legno di due alberi locali, che non soltanto conferisce al vino un gusto peculiare e inconfondibile, ma è in grado di facilitare l’eliminazione dei solfiti. I prodotti, dal Merlot allo Shiraz, sono di alto livello.

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