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Foto da Konstanz

Un breve viaggio in Germania, sul lago di Costanza (6 febbraio 2010). Per altre immagini consultare la recensione del Restaurant Radieschen


Un aperitivo a base di bretzel


Una gustosa "specialità" del supermercato Lidl

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Cantine e cantoni

Vino spillato direttamente dal cartone (ci sono le prove fotografiche) e addirittura, sacrilegio, una birra in bottiglia: ci si possono aspettare provocazioni più eclatanti da un festival dedicato al vino? Forse sì: il fatto che quel festival non si svolga in Italia, ma in Svizzera, e precisamente al Centro Esposizioni di Lugano, che ormai da anni ospita il salone della ristorazione e dell'enogastronomia Ristora, all'interno del quale è contenuto il Lugano Wine Festival. Ma andiamo con ordine.

Da anni ormai si sente parlare della Svizzera come di una nuova grande realtà in campo enologico. A ben guardare, in realtà, citare il vino tra i prodotti tipici della Confederazione è molto meno azzardato di quanto si potrebbe pensare: nei cantoni francesi, in particolare il Vallese, la vite è da secoli una delle principali coltivazioni e i vini che ne risultano sono universalmente noti per la loro ottima qualità, malgrado i ridotti volumi di produzione. Più sorprendente, semmai, è che a salire agli onori della cronaca enologica sia il Canton Ticino, regione in cui gli spazi per la coltivazione sono davvero scarsi e la cultura del vino tradizionalmente modesta. Negli ultimi anni, tuttavia, riviste, guide ed esperti del settore hanno intrapreso una lenta ma costante opera di rivalutazione dei vini elvetici, esaltando cantine e bottiglie rossocrociate e talvolta mettendole addirittura in competizione con le ben più blasonate realtà italiane. La Svizzera come nuova Mecca del vino, dunque? A giudicare dalla nostra brevissima visita al festival ticinese, più che altro una toccata e fuga, per il momento è meglio andarci con i piedi di piombo.

A una prima occhiata, si direbbe che il Lugano Wine Festival abbia ancora molta strada da fare, in tutti i sensi: scarsa l'affluenza di pubblico - colpa anche dell'evento ospitante, il salone Ristora, che ha davvero poco da offrire - e dunque poco visitati gli stand, che pure presentano una più che discreta varietà di ospiti italiani e stranieri. Poco valorizzati, soprattutto, i vini locali, "affogati" in mezzo a una serie di altre proposte d'oltralpe (quasi tutte le cantine svizzere, infatti, sono costrette ad affiancare l'attività di importazione a quella produttiva, per non dire il contrario). Ciò nonostante, la delegazione delle Locuste ha potuto apprezzare alcuni assaggi dei vini prodotti dalla Cantina Sociale di Mendrisio, una delle più estese della zona. Il vitigno ticinese per eccellenza, il Merlot, è presentato in diverse varietà a seconda della selezione delle uve e dell'invecchiamento: la bottiglia migliore è certamente La Trosa, risultato dell'affinamento in rovere di uve provenienti da vecchie vigne dei colli del Mendrisiotto. La "sorella minore" della cantina, la casa vinicola Monticello, offre a sua volta una linea di Merlot per tutti i gusti. Da provare la riserva Racconti, invecchiata in barrique per oltre 18 mesi. Per il resto, come si è detto, l'azienda sopravvive grazie alla commercializzazione di diversi prodotti italiani anche di gran pregio, come i vini della cantina Rivetto di Sinio d'Alba: eccellenti i Barbera Nemes (intenso e corposo) e Zio Nando (più aromatico e fruttato), merita un assaggio anche il Barolo Serralunga. Ma con le cantine del cuneese si sfonda davvero una porta aperta...

Terminata la brevissima escursione nelle realtà elvetiche, siamo tornati quasi subito a solcare le strade della viticoltura italica. Con piacere, dobbiamo dirlo: siamo infatti caduti tra le braccia non soltanto della ben nota Cascina I Carpini (già incontrata al Vinix Live!) ma anche della cooperativa Sasso dei Lupi. Una realtà davvero atipica nel panorama nazionale quest'azienda umbra, formata dall'unione di ben 780 piccoli viticoltori che ne fanno la più grande della regione per dimensioni. Questa struttura consente di mantenere il legame con la tradizione ma anche di giocare sui grandi numeri e sperimentare iniziative "rivoluzionarie" come, per l'appunto, il vino in cartone (un rosato decisamente bevibile). Tornando alla bottiglia, da provare il Grechetto, sia nella versione base che nella più profumata e strutturata variante Terzastrada. Non ha nulla a che vedere con l'Umbria invece la buonissima Birra del Carrobiolo, una delle due sole birre monastiche imbottigliate in Italia: la producono i Padri Barnabiti di Monza ed è da provare ad ogni costo.
Sulla scia dell'entusiasmo ci siamo lasciati "accalappiare" anche da Luca Ferraro, titolare insieme al padre dell'azienda Bele Casel di Caerano San Marco (Treviso). Territorio che a breve vedrà la nascita della nuova DOC Prosecco con le DOCG Valdobbiadene e Asolo: e parlando di prosecchi, davvero eccellente è il Brut dell'azienda trevigiana, di freschezza e acidità invidiabili. Meno significativo l'Extra Dry, che pure è il prodotto più venduto della cantina, mentre si fa apprezzare il Prosecco Millesimato, dolcissimo ma di grande carattere.
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Osterie d'Italia 2010

L'introduzione, diceva qualcuno, è quella parte del libro che si scrive alla fine, si pubblica all'inizio e non si legge né all'inizio né alla fine. Battuta veritiera, ma con qualche eccezione: nel caso dell'ormai mitica guida Osterie d'Italia, per esempio, si tratta sempre di una lettura interessante per capire da che parte gira il vento in casa Slow Food, a maggior ragione in occasione del ventennale dell'opera che ha a suo modo segnato la storia della critica gastronomica (la prima edizione uscì infatti nel 1990). In questo caso la nostra prima reazione alla lettura del testo introduttivo, redatto in forma di dialogo tra la curatrice Paola Gho e il "grande capo" Carlo Petrini, è stata di sincera commozione, in particolare nel passaggio in cui il fondatore di Slow Food, per esemplificare il modello di vita e di sviluppo dell'associazione, cita "il piacere di una polenta concia con gli amici": a vedere enfatizzato e osannato in questo modo il nostro piatto-totem lo scorrere di qualche lacrimuccia è stato inevitabile per noi che pure, a comprendere l'importanza di queste piccole ma grandi cose, ci siamo arrivati un po' più tardi (soprattutto per ragioni anagrafiche).

Al di là della difesa, sempre attuale, di abitudini conviviali e sapori di una volta, Petrini fa però un'altra importante osservazione, nel momento in cui rileva e rivela che l'osteria, molto più di un ideale gastronomico, è un topos culturale. Quello che Slow Food vuole recuperare dei locali di un tempo, viene detto a chiare lettere, è l'atmosfera, l'identità locale, la possibilità di condivisione sociale, ma non la cucina: quella è un'altra cosa, e può derivare dalla tradizione popolare (praticata in un contesto casalingo più che pubblico) come dalle scuole di ristorazione. Un concetto importante, che finalmente chiarisce un aspetto spesso travisato della filosofia dell'associazione piemontese. Ciò non significa peraltro che Slow Food sia disposta a transigere sul legame con il territorio e, soprattutto, con il passato: anzi, dice esplicitamente Petrini: "il successo della guida ha pure contribuito a esasperare certe tendenze che non condivido, come quella di diventare esclusivamente luoghi di ristorazione, con relativa enfasi sulla preparazione e soprattutto sulla presentazione dei piatti. (...) Un altro rischio è di trovarsi in ambienti eccessivamente ingessati, e magari alle prese con apparecchiature e servizi che ricordano più l'alta ristorazione che i ritrovi popolari".

Fin qui l'introduzione: poi, per fortuna, c'è anche il resto del volume. I pregi della guida (910 pagine, 20 €) sono rimasti meritevolmente immutati: ricca ma snella e maneggevole, a basso prezzo (addirittura diminuito di qualche centesimo rispetto all'ultima edizione), facilmente leggibile anche per il "profano", onesta e sostanzialmente precisa nelle recensioni, malgrado qualche prezzo un po' ritoccato al ribasso. La consultazione resta comoda e pratica grazie alla classica suddivisione dei locali per regioni, ciascuna delle quali introdotta dall'intervento di un personaggio celebre; anche gli ospiti sono più o meno equamente divisi tra nostalgici e "futuristi". L'attenzione all'evoluzione della cucina italiana è testimoniata dalle tante new entry: solo nel milanese, come abbiamo già avuto occasione di notare, se ne possono contare ben 4, sintomo dell'intraprendenza di chef e imprenditori ma anche della prontezza negli aggiornamenti da parte dei curatori.

Anche i lati negativi, sia pure di rilevanza ben più modesta, sono quelli già evidenziati per le precedenti uscite: in primis, l'assenza di un criterio più rigido e almeno in parte verificabile per l'inserimento dei locali e l'attribuzione delle ambite chioccioline (che identificano i ristoranti "da Slow Food"). L'impressione generale è che, tagliato il prestigioso traguardo del ventennale, la guida sia chiamata a esprimere giudizi netti e prendere una posizione ben definita. Oggi che i valori propugnati dall'associazione, dal chilometro zero alla riscoperta delle tradizioni agricole, si sono trasformati in una moda e i tentativi di imitazione sono superiori a quelli della Settimana Enigmistica, oggi che persino Mc Donald's si concede il lusso di sfornare panini con "ingredienti locali", senza peraltro migliorarne di un briciolo la qualità, non è più sufficiente definire l'osteria in base a quello che non è: bisogna chiarire con precisione e serietà quello che è, o perlomeno dovrebbe essere. In parole ancora più povere: vent'anni fa Slow Food era all'opposizione, oggi deve dimostrare di saper governare il nuovo corso della nostra gastronomia.
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Nel giardino del diavolo

Quale fu l'ultimo, trasgressivo pasto del presidente francese François Mitterand? Perché il pomodoro e la patata sono stati a lungo ritenuti, a turno, cibi diabolici? E qual è (o sarebbe meglio dire era) la razza di cani più appetitosa? Possiamo soltanto immaginare - anche se per la verità traspare a più riprese dalle pagine del libro - quanto possa essersi divertito l'eclettico giornalista americano Stewart Lee Allen a raccogliere e raccontare, con maliziosa verve, questi e altre decine di simili aneddoti sul cibo che vanno dallo sfizioso al macabro. Ma "Nel giardino del diavolo" (Feltrinelli, 296 pagine, 8,50 euro), malgrado la sua composizione frammentaria, è tutt'altro che un semplice zibaldone di stranezze e bizzarrie da Settimana Enigmistica: il libro, nel suo insieme, racchiude una profonda riflessione sui rapporti non certo idilliaci che l'uomo ha intrattenuto nel corso della storia con il suo nutrimento, facendosi influenzare di volta in volta da religioni, ideali, mode e umori del momento, e dunque trasformando l'alimentazione in oggetto di proibizioni, incentivi, divieti e dogmi, quando non addirittura causa di guerre e stermini. A dispetto del solito, ingannevole titolo italiano ("Storia lussuriosa dei cibi proibiti"), l'opera di Allen non si limita affatto al rapporto tra cibo e lussuria, che pure è il vizio primigenio, causa del peccato originale - insieme alla gola - e base di tanti dei tabù legati all'alimentazione; anzi, basta sfogliare l'indice per rendersi conto che ogni capitolo è dedicato a uno dei vizi capitali, dalla gola all'accidia passando per superbia, ira, avarizia e invidia, naturalmente considerati in rapporto alle abitudini nutrizionali dell'uomo. Viste le premesse, è evidente che il punto di vista "cattolico" è quello privilegiato: è vero che, come ricorda lo stesso autore, la religione cristiana è fra le poche a non imporre divieti di carattere alimentare - e proprio questo è uno dei suoi aspetti rivoluzionari - ma è anche vero che in seguito, nel nome dei precetti della Chiesa, anche in questo campo se ne sono fatte di cotte e di crude, se ci si è concesso il gioco di parole. Comunque, il Cristianesimo non è certo l'unico bersaglio delle critiche: induisti, ebrei, musulmani e buddhisti hanno a loro volta parecchio da farsi perdonare...

Trascinati dall'estremo interesse delle tematiche trattate, si arriva in un attimo alla fine del libro, dove troviamo una provvidenziale appendice che approfondisce, con opportuni riferimenti bibliografici, gli episodi citati nei vari capitoli. Se il saggio ha un difetto, infatti, è quello di essere talvolta troppo superficiale, dando per scontate alcune nozioni e lasciando cadere sulla storia del mondo lo sguardo sarcastico e disincantato tipico, in verità, di molta pubblicistica made in U.S.A. Superato questo aspetto stilistico, tuttavia, è impossibile sottovalutare il valore delle riflessioni contenute nell'opera, che spingono il lettore a riscoprire di volta in volta i legami del cibo con la superbia (intesa come sopraffazione nei confronti di altre razze o popoli), con l'avidità (abitudini alimentari imposte per sfruttare o depredare i più deboli, fino all'extrema ratio del cannibalismo), con l'accidia (stimolata, secondo la tradizione, dai nutrimenti troppo ricchi o raffinati). E se è difficile non lasciarsi incantare dalle leggende dei Masai, autoproclamatisi padroni di tutte le mucche del mondo, o reprimere un sorriso di fronte alla "battaglia culinaria" tra mariti e amanti in Nuova Guinea, è altrettanto arduo non provare un brivido ripercorrendo la storia dell'economia di Haiti devastata dallo sterminio dei maiali o della "guerra del pane" che fu tra le cause della Rivoluzione francese.
Una lettura a più livelli, dunque, che getta una luce importante sull'estremo valore attribuito al cibo in tutte le culture (antiche e moderne) ma che, al tempo stesso, consente di svagarsi provando a riprodurre ricette "trasgressive" come l'oca alla Sade o lo stufato eretico di carni miste e ceci...
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Una Milano da bere

Forse questa volta possiamo dirlo: il Weekend della Degustazione ha trovato casa. L'evento milanese, negli ultimi anni forzatamente itinerante (in passato ha fatto tappa anche al Palalido), sembra aver scoperto nel 2009 la sua giusta dimensione e la sede più appropriata. Le lussuose e raffinate sale interne del Marriott Hotel di via Washington, capienti ma non dispersive ed esteticamente appaganti, sono state la degna cornice di una manifestazione decisamente riuscita. La formula voluta dall'organizzazione è un'apprezzabile via di mezzo tra l'assaggio mirato e la "fiera" del vino: una trentina di stand gestiti dai produttori, eventi e conferenze in una saletta riservata e la possibilità, molto sfruttata, di acquistare le bottiglie direttamente al banco. Affluenza di pubblico come sempre notevole, a tratti eccessiva nelle serate del venerdì e del sabato, malgrado i 15 euro del biglietto d'ingresso (peraltro ridotti a 10 per chi si registrava online): Milano, almeno in questi casi, è ancora da bere... Ma i lavoratori del settore sono ormai esperti nel tollerare anche gli alcolisti meno anonimi.

A rendere l'evento ancora più stimolante c'è stata, nella serata di giovedì 19 novembre, la presentazione del Consorzio di Tutela del Vino Custoza e della relativa DOC: un bianco ancora misconosciuto che però negli ultimi anni sta salendo prepotentemente alla ribalta, grazie soprattutto al successo ottenuto all'estero. Quattro le tipologie di vino: il Custoza, frutto della combinazione di quattro uve, il Custoza superiore, invecchiato per almeno cinque mesi, il Custoza spumante e il Custoza passito. Nove, invece, le aziende presenti al Weekend in rappresentanza degli oltre 60 produttori che aderiscono al consorzio lungo la Strada del Custoza, tra Valeggio sul Mincio, Sommacampagna e Peschiera. L'impressione è che di questo vino (DOC dal 2001) sentiremo molto parlare nell'immediato futuro...
Tra gli altri espositori Lombardia e Piemonte fanno la parte del leone, ma non mancano aziende provenienti da Sicilia, Basilicata e Puglia. E l'evento diventa internazionale con lo stand svizzero (Rouvinez Vins) e quello, pregevolissimo, dei prodotti sudafricani. Di seguito vi lasciamo, come di consueto, alla nostra discutibilissima selezione dei vini degustati. Prima, però, una nota di merito per i prodotti marchigiani e umbri forniti da Messaggi & Sapori, il negozio di Clauio Naim e Gianni Pessina che ha sfamato tutti i partecipanti con i suoi panini al ciauscolo, al salame di Fabriano o al pecorino di fossa: accompagnamento ideale per una serata adatta agli stomaci robusti.

Carpineto - Greve in Chianti (FI): Fra i migliori assaggiati al Marriott i vini della premiatissima azienda toscana. Spicca in particolare il famoso IGT Dogajolo, Sangiovese al 70% definito addirittura "uno dei vini più innovativi sino ad oggi prodotti": magari un po' eccessivo, ma morbidezza e struttura sono davvero di alto livello. Nell'ampio catalogo delle etichette da ricordare poi il Cabernet Sauvignon Farnito, invecchiato per 9 mesi in botti di rovere: nel 1998 fu inserito tra i top 40 al mondo dalla rivista Wine Spectator.

Caminella - Cenate Sotto (BG): Nel ricco panorama vinicolo del bergamasco è una delle cantine dalla produzione più originale. Famoso il Luna Rossa, ottenuto da un blend di Cabernet Sauvignon, Merlot e Pinot Nero e affinato per 18 mesi in barrique: colori intensi e profumo di spezie sono le sue caratteristiche migliori. Da assaggiare anche il Goccio di Sole, Moscato di Scanzo raccolto tardivamente.

Piccioni e Pastori - Castell'Arquato (PC): Se pensate di conoscere a memoria i vini piacentini forse dovreste passare dalle parti di questa tenuta, che dopo aver sfoderato l'Ortrugo, il Gutturnio e la Bonarda di ordinanza vi stupirà con un Cabernet Sauvignon di inconsueto profumo e robustezza, e infine calerà l'asso dell'Arché, una selezione di uve Bonarda vinificate esclusivamente in acciaio.

Antonello Cassarà - Alcamo (TP): Di premi ne hanno fatto incetta più o meno tutti i vini dell'azienda trapanese: l'elegante e secco bianco Jacaranda come l'ineccepibile e aromatico Nero d'Avola. Una spanna sopra gli altri è però senza alcun dubbio il Kilim bianco, un'IGT siciliana ottenuta da uve Chardonnay e da piccole percentuali di vitigni aromatici. Il risultato è un gusto complesso e originale che colpisce favorevolmente.

Fattoria Campigiana - San Miniato (PI): Tre generazioni di viticoltori in quest'antica cantina del Pisano. I prodotti più interessanti sono il Chianti Barbarossa, che conserva un'elevata e ormai inconsueta acidità, e l'IGT Imperatore, robusto e profumato.

Torraccia del Piantavigna - Ghemme (NO): Il destino era già nel nome: Piantavigna si chiamava il nonno del fondatore, nientemeno che Alessandro Francoli, proprietario di una delle più note distillerie italiane. Il vino sarà pure un passatempo secondario per lui, ma ciò non gli impedisce di produrre un Ghemme e un Gattinara di eccezionale qualità, entrambi ricchissimi nei profumi. Interessante anche la Vespolina "La Mostella".

Colle di Bugano - Bugano di Longare (VI): Simone Fanton, oltre che vignaiolo, è anche sommelier in un ristorante e forse per questo produce vini perfetti per l'abbinamento con i piatti tipici del vicentino. Originalissimo il Pinot Nero Vecchio Vignalone, vinificato in bianco e dall'inconfodibile colore ramato; insolitamente fresco e profumato il Rosso del Brolo (è Tocai, ma non si può dire).

Corte Gardoni - Valeggio sul Mincio (VR): Un piccolo produttore specializzato nelle due principali DOC locali: il Bardolino e naturalmente il Custoza, qui particolarmente fresco e leggero. Ne esiste anche una versione invecchiata in acciaio (il Mael), che non è Custoza Superiore, ma poco ci manca...

Les Granges - Nus (AO): Chi non conoscesse i vini valdostani (come noi) può partire da qui per scoprire tutti i vitigni autoctoni: l'originale Cornalin, l'eccellente Fumin (barricato e dal sapore molto fruttato), il Nus, più delicato, e la Malvoisie, che altro non è che un Pinot Grigio vinificato in bianco.

Castello di Corbara - Orvieto (TR): Antiche rovine romane e, tanto per gradire, un castello medioevale fanno da cornice a una tenuta di oltre 100 ettari. Tra i bianchi si fa preferire il delicato Grechetto Il Gaio; a nobilitare ulteriormente la ricca produzione, due grandi rossi invecchiati come il Lago di Corbara Riserva da uve Merlot e il Sangiovese Riserva IGT, entrambi affinati per 16 mesi in rovere e poi per almeno 7 mesi in bottiglia.

Taverna - Nova Siri (MT): Il fiore all'occhiello di questa azienda lucana recentemente rinnovata è il Lagarino di Dioniso, rosso ottenuto da uve Merlot e Sauvignon oltre a un 10% di Aglianico del Vulture. Invecchiato in rovere, ha un gusto intenso e armonioso.

Favite - Nimis (UD): Tutti i più classici vini friulani, dal Merlot al Refosco, nel portfolio della cantina di Vladimiro di Giusto. Interessante per dolcezza e profumo lo Schioppettino, mentre il prodotto meno conosciuto è senza dubbio il Ramandolo, vino dolce e fruttato di colore giallo intenso, invecchiato in legno di robinia.

Ronco della Fola - Scanzorosciate (BG): Inutile girarci intorno, vista la zona la specialità della casa non può che essere il Moscato di Scanzo, dolce ma non troppo, affinato per 24 mesi in solo acciaio.

AfriWines - Muggiò (MI): È l'azienda che si occupa di importare e distribuire i vini delle principali cantine sudafricane, fra i quali va senza dubbio segnalato il Pinotage Rico Suter. La maggior parte dei prodotti sono acquistabili tramite l'enoteca on line Sudigradi.

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